venerdì 29 dicembre 2017

Non esistono anticorpi alla fotografia

Non so quanto sia difficile o semplice parlare di un autore che consideri determinante per la tua visione artistica - uso il termine artistico come pura convenzione semantica per definire qui un ambiente di retorica.
Ricordo quale è la sua prima foto che ho visto, anni fa. Ma dove e come non lo ricordo più. Quella foto mi ha accecato, ferito gli occhi e forse quella ferita continua a essere lì. 
Dopo vari giri, come spesso mi capita, sono ritornato su Antoine D’Agata, questa volta con più attenzione. Ho iniziato a leggere di lui, in realtà dapprima i copia/incolla delle cose che si dicono di lui in rete. Ma è stato solo dopo averlo incontrato per la prima volta a Milano la scorsa primavera, dopo aver sentito la sua stretta di mano, la gentilezza del suo sguardo incastrata in una faccia non proprio aggraziata, la sensazione piacevole della lingua italiana con forte accento francese, e la sua umiltà, che mi sono deciso a sapere di più della sua opera. 
In rete anche le foto, come i testi che lo riguardano, sono sempre le stesse. Ho iniziato a comprare i suoi libri e scoprire, con imprecazioni del mio portafogli, che sono davvero tanti. La sua produzione fotografica è immensa! Credo ci siano poche mostre in giro perché stampare ed esporre tutto quello che fa rientrare nei libri sarebbe faticoso per se stesso e per chiunque lo rappresenti. 
Poi ci sono anche i documentari. Altra roba forte.
Antoine D’Agata non è per tutti e meno male, penso fra me.
Ogni suo libro è diverso, per forma, peso, carta, grafica. Eppure in ognuno si manifesta la sua forte scrittura linguistica: la fotografia.  Pensi di averlo frettolosamente capito quando, ipnotizzato, scorri le sue immagini di abisso legate alle prostitute e droga con cui si immerge. Invece è maledettamente e meravigliosamente matematico nel lavoro Fukushima. Struggente nella serie di autoritratti. 
Confessa egli stesso di non condividere, disapprovandolo, il clima  elitario della Magnum a cui appartiene da anni. Infrange per coerenza personale e di sopravvivenza, forse, l’etichetta che sarebbe sua solo perché membro. 

Al Paris Photo a novembre, nel mio zaino, mi ero portato dietro dall’Italia uno dei suoi libri, uno piccolo per ingombro. Così!
Avevo finito di girare gli stand e mi avviavo al book shop. Lo trovo seduto ad un tavolino a siglare i suoi libri. Poca gente in quel momento. 
Mi sono fermato da lui e abbiamo parlato un po’. Gli ricordo che ci siamo incontrati a Milano mesi prima e lui per gentilezza mi chiede da dove arrivo. Gli dico South Italy, Puglia esattamente. 
Mi guarda e fa una pausa. “Ho conosciuta una ragazza di Lecce anni fa, mi ha procurato molto dolore.” 
I suoi occhi si sono velati di una tristezza incredibile. Ero imbarazzato quasi glielo avessi procurato io quel dolore. 
Dopo abbiamo parlato ancora e prima di andare gli ho chiesto di prendergli un ritratto.

Da tempo ho ridotto la distanza con le persone che decido di fotografare, forse un giorno ricalibrerò ancora la cosa, ma ora sento questa forte esigenza di essere “addosso”. Sentire l’altro alla stessa distanza di uno specchio. 
Il ritratto a D’Agata lo guardo spesso e non trovo nulla di quello che vedo nei suoi libri. Continuo, forse per mio ingenuo romanticismo, a legarlo alla ferita di quella ragazza leccese, come se il mio ritratto avesse separato il fotografo dall’uomo.


Antoine D'Agata @Nicola Petrara 2017

mercoledì 27 dicembre 2017

L'evoluzione

Torno a scrivere, intanto  per puro piacere personale. Lasciare delle coordinate precise di un dato pensiero, in un dato tempo, mi aiuta a scrivere mappe personali.
Inizio a pensare che i workshop abbiano - o sono in via terminale - perso la loro funzione originale. Ce ne sono molti in giro in realtà, ma sono cloni e ricicli senza possibilità di trauma per chi li frequenta. Molti autori e fotografi con esperienza se ne sono accorti da un po’ e hanno spostato il tiro: dai workshop sono passati alle masterclass, le masterclass diventano academy o qualunque cosa che abbia una durata simil scolastica.
C’è una evoluzione in atto!I workshop sono diventati inutili per la ragione semplice che il sistema di apprendimento vecchio stile è superato.
Già lo aveva detto anni fa Riccardo Luna, ex direttore di Wired Italia nel suo “Cambiamo Tutto”, che la scuola, così come continuiamo a viverla oggi non ha più senso. L’insegnate che arriva spiega la lezione, l’alunno che impara delle informazioni e poi le espone in maniera mnemonica, non produce più nulla. Non è evolutiva ma involutiva. Ci sono organismi scolasti, sperimentali anche in Italia in piccole isole, dove alunni e insegnati “scrivono”  lezioni e programma insieme. E la rete è il loro veliero! L’esplorazione al posto dell’interrogazione.

Stessa cosa va applicata alla fotografia. Come poter immaginare di apprendere, crescere, creare il nuovo o l’inesplorato se nei workshop assistiamo all’esposizione di un metodo individuale. Se facciamo il paragone col mondo culinario, è come illudersi di aver imparato i cibi e a cucinare quando invece hai solo assaggiato il piatto che ti ha preparato un’altro.Per imparare ci vuole tempo, un fattore maledettamente in contrasto con le frazioni di secondo che la fotografia ci ha abituato. Non più workshop ma percorsi dunque! Perché siamo così indietro con l’ammettere la necessità, l’urgenza di avviare scuole serie sulla formazione del pensiero fotografico? Le letture degli ultimi giorni stanno certamente viziando queste mie riflessioni, ma le trovo giustificate. Vilém Flusser ha aperto nuovi confini sull’orizzonte fotografico e filosofico che altri non avevano neppur toccato per una ragione semplice: i workshop sono tenuti da fotografi! Lasciamo che all’interno di un percorso di studi sulla fotografia siano gli studiosi a parlarci dei concetti e i fotografi delle esperienze. Gli uni servono agli altri ma se gli uni si sostituiscono agli altri accadrà un implosione culturale che ci riporterà in un periodo di analfabetismo totale. La nascita della fotografia ha segnato questo punto cruciale della storia moderna: la nascita di un nuovo linguaggio. La sua forza ha assorbito anche la codifica della lingua delle immagini che già esisteva da secoli. Ci confondiamo tanto da ingannare noi stessi perché ignari della differenza tra fotografia e immagine e produciamo più immagini che fotografie! Ora siamo ancora agli inizi di questa nuova era del visivo. Non sappiamo scrivere con il nuovo linguaggio figuriamo se possiamo leggerlo e di conseguenza comprenderlo. Abbiamo scoperto il fuoco! Produciamo fotografia in maniera esponenziale senza sapere quante possibilità ci dà questa scoperta. Siamo primitivi e siamo appena scesi dall’albero della nostra evoluzione linguistica.