venerdì 29 giugno 2012

pulse

Aleggia un'atmosfera delicata intorno a me. Da qualche giorno.
Un anno fa piangevo lacrime graffianti, a ricordarmi quanto sangue avevo sotto la cute e che fosse ora che mi accorgessi di quel pulsare estremamente fragile e vitale. Domani torno in quel luogo, a salutare volti noti e ad incontrarne nuovi. A proposito dei nuovi, spero di avere il confronto con chi ho richiesto legga il mio portfolio. Ogni volta mi maledico per non aver prodotto abbastanza, salvo poi scoprire che fatico di più a selezionare e scartare. Porto con me domani delle immagini ancora inedite, mai mostrate a nessuno. Sono nate immediatamente dopo il postbenedusi, d'impeto, come sotto effetto sbornia, fuori controllo. Ho scattato fin quando non sono tornato lucido, fino a quando non sono tornato a vigilare su me stesso. Da sveglio ho provato vergogna per quelle immagini. Le temevo per i possibili strati di realtà che potevano generare, le incomprensioni o le altrettante interpretazioni. Una foto cos'è? Il pensiero razionale vuole che esista una sola realtà, matematica, quello umanistico invece lascia all'osservatore la libertà di costruirsene una propria sull'alfabeto culturale che possiede. A chi appartiene allora la foto? Al suo autore protagonista che si rivela vero (forse), nudo, unico proprietario di quell'identità, o al suo fruitore spettatore che, prendendone coscienza, come dichiara Francesca, non riesce più a viverne senza? Non so decidere.
La fase è delicata anche per un altro motivo. Ho messo a fuoco un progetto. Temo, nell'euforia del momento, di precipitare per troppa fretta, per esaltazione. L'ho commissionato a me stesso, non mi importa di mostrarlo e se accadrà sarà per conseguenza collaterale. Sento il bisogno di essere lasciato in pace, evitare di dover dar conto, fare in modo che il fiore si schiuda lontano dalle gelate. Ho la tremenda sensazione che se voglio fare fotografia devo smettere di fare il fotografo.

mercoledì 27 giugno 2012

sto leggendo Murakami ma è una coincidenza

C'è una playlist dei luoghi che desidero visitare e non sentirò di aver vissuto appieno se prima non ci sarò stato. In pole costante l'Australia, a seguire il Giappone. Quest'ultimo ogni volta che entra nel mio raggio di ascolto mi procura un fremito lungo tutto il corpo. Ho letto manga per parecchi anni, almeno un paio di serie della mia collezione li reputo dei capolavori, forse proprio durante queste letture mi sono imbattuto nella definizione di "Tokio: il caos organizzato". I motivi di questo mio desiderio di andare dall'altra parte del pianeta possono apparire superficiali rispetto ad un sano interesse culturale e storico, ma ad oggi le tracce di quella curiosità prima infantile, poi adolescenziale, sono ancora la componente principale che mi spinge a sognarli.  Il Giappone che cambiava è il titolo di una mostra che ha da subito innescato la mia attenzione. Esposta alla Galleria 70, nei pressi di porta nuova a Milano, oltre a godere di immagini evocative ho potuto ascoltare e sorprendermi del pensiero del suo gallerista.  Era mezzogiorno quando sono entrato, alle due avevo un treno per Torino ma l'ho perso perché nell'ipnosi uditiva ho dimenticato qualsiasi controllo sul tempo. Difronte a gente che snocciola con fare calmo e ovvio l'universo dell'arte io resto incantato. In due ore e mezzo ho faticato ad inserirmi nel flusso dei discorsi del padrone di casa, poche frasi ermetiche, per dare l'idea che ero vivo, e spero di non aver detto scemenze. Il dato sorprendente è che questo incontro arriva in un periodo in cui sento "arte" ovunque mi giro. Ho delineato un percorso progettuale, ne sono preso, tanto che interferisce nelle faccende lavorative e sulla concentrazione. Poiché sto indagando sui vari aspetti intrinseci di questo progetto è stata una rivelazione scoprire dal mio interlocutore, appassionato di cultura africana, una variante che non avevo minimamente considerato. Da un certo punto in poi è stata una violenza perché avevo desiderio di continuare ad ascoltare tutto quel sapere e contemporaneamente viaggiavo sui miei binari fotografici. Ho salutato e ringraziato ripetutamente prima di uscire, ironicamente ho anche avvisato che al prossimo incontro l'avrei registrato per esigenze di memoria, infatti appena ho messo il naso fuori ho annotato su Ipad quanto più possibile di quello che avevo sentito. Non ho avuto tempo per riordinare le note di quel giorno, ancora una volta un incontro inaspettato mi ha aggrovigliato le sinapsi.  "Il Giappone che cambiava" di Mario De Biasi, alla Galleria 70 - corso di Porta Nuova 36/38 Milano, curatore Eugenio Bitetti

venerdì 22 giugno 2012

reed mountain

I primi sei mesi di questo anno sono passati come se avessi attraversato un sentiero roccioso con pendenza oltre il cinquanta per cento. Il parallelismo non è solo superficiale. Spesso mi è capitato di vivere delle vacanze estive facendo escursioni in montagna. Una delle prerogative  in questi caso è munirsi di scarpe comode e  pronte a resistere a dure prove, poi bisogna avere la giusta divisa, l'abbigliamento indicato che permetta di stare comodo sia sotto il sole cocente che  al fresco delle zone fitte di vegetazione. Delle escursioni non bisogna trascurare la fatica delle salite meno che mai la trappola delle discese, in queste, all'inizio, si tende a lasciarsi andare al vantaggio della pendenza favorevole per scoprire dopo qualche decina di tornanti che si è caricato troppo sulle ginocchia e se non si è fatto qualche danno a tendini e muscoli si è fortunati. Ma la prima esperienza che ho fatto mi ha insegnato il dato più importante dell'escursionismo: lasciare ciò che non serve. Il mio primo zaino era pieno dellla sopravvivenza per una settimana, o lo stereotipo della valigia di una donna pronta alla vacanza. Camminare per ore con l'abbondanza di elementi che presi singolarmente avevano una loro logica di utilità,  in aggiunta a macchina fotografica, treppiedi e un paio di ottiche (dove non brillo di acume recupero in stoltezza), non fu una brillante idea. La mia spalla mi maledì. Il secondo giorno ho alleggerito, ma senza convinzione e ho impiegato una settimana per ottenere la giusta misura di zavorra.  Questi sei mesi mi ricordano quelle prime uscite. A parte tutta la pulizia di pensieri e dinamiche nel contesto fotografico ho preso ad alleggerirmi anche di alcuni reed presenti nel mio elenco, quelli che sostanzialmente non mi servono. C' è stato un periodo, fino a poco più di un anno fa, dove vivevo google reader come il cartellino da timbrare prima di iniziare la giornata. Passavo parecchio tempo su blog interessanti ma di molti non ne avevo bisogno, come se avessi messo in zaino il fornellino da campo in una escursione che mi avrebbe riportato a casa dopo sole due ore. Quando dico che non ne avevo bisogno non è per superbia. Semplicemente mi stavano portando da un'altra parte, in alcuni casi mi distraevano del tutto. Essermi preso un lungo periodo di distacco forzato da queste letture mi è servito. Non controllo più quotidianamente i reed, mi ritaglio lo spazio appropriato, come dire: stasera vado al cinema, vado a salutare un amica, oggi mi leggo i reed. La rosa di quelli che continuano ad essermi affezionati conta poche unità adesso, il resto sta lì e basta, forse solo a ricordarmi che sarebbe meglio o sostituirli o metterli via del tutto.  Comunque oggi è una bella giornata, ufficialmente siamo in estate, e ho messo nella sacca ciò che mi serve per oggi. Esco a fare due passi sul reed mountain.

martedì 19 giugno 2012

tempografia

Un mio cliente mi chiama qualche giorno fa chiedendomi di incontrarlo. Lo raggiungo prima  possibile perché con una sana educazione e un attento rispetto dei ruoli si è accattivato la mia stima. Nei suoi uffici mi mette a conoscenza di una vicenda che gli provoca un disagio di cui liberarsi, per quanto possibile. Una persona a lui cara, che vive al di là dell'Atlantico, ha visto cancellarsi completamente la sua abitazione. Tutto è andato distrutto e con esso la perdita del suo contenuto. Nell'elenco delle perdite anche le foto ricordo,  le tracce che testimoniano la presenza di una vita e che diventano ancore e per la memoria e per il cuore. Il mio cliente mi ha chiesto di andare a recuperare, rifotografandole, le uniche immagini dei familiari di questa persona che sono in una casa e su una lapide in un cimitero di un paese del centro Italia, per poi spedirle. Pochi frammenti rispetto all'archivio originario. Fotografie, finché le stampavamo ci disperavamo per i costi e l'ingombro delle scatole dove tenerle. Poi il pixel ci ha liberato dell'uno e dell'altro. Dell'avvento del digitale non recrimino nulla, la sola cosa che faccio molta fatica ad accettare sono proprio le cornici digitale. Una foto (stampata) che sbianca dietro un vetro  mi da la percezione del tempo che passa, è una roccia che si trasforma all'erosione; se tutto rimane inalterato per magia dell'elettronica la faccenda si fa triste, come il desiderio di immortalità mentre il resto del mondo invecchia, o in scala ridotta come chi spera di congelarsi dietro la chirurgia plastica. La fotografia è tempo. E deve scorrere, seppure ad una velocità misurata diversamente. Le foto ricordo hanno un fascino incredibile su di me. Se mi capita di entrare in casa di qualcuno per la prima volta il mio sguardo è orientato alla mensola dei libri e alle foto ricordo. Mi piace supporre di poter capire chi sono i proprietari da cosa leggono e come tutelano la memoria. Che coincida con la realtà è irrilevante, è un gioco a immaginare. Così oggi mi ritrovo fra le mani volti, date, atmosfere, dediche, tutte racchiuse nei quattro lati di una foto. In un paese del centro Italia stamattina il tempo ha preso a scorrere diversamente per me. Mentre si muove crea scene, struttura dialoghi, colora. Una sorta di camera oscura dove si sviluppano storie ed invece di scrivere con la luce si scrive col tempo.

venerdì 15 giugno 2012

artisti veri (reloaded)

Prima della fotografia, prima del teatro e dei tentativi nella musica e come scrittore mi sono cimentato con il disegno. Era il '95. Esisteva in quel periodo una rivista, Boss, che presumo sia scomparsa dalle edicole. L'interno conteneva per buona parte foto delle più o meno vestite soubrette della televisione di quel periodo. Ma capitava anche di trovare dei buoni servizi di fotografi interessanti, lì ad esempio ho scoperto Bitesnich. Boss lo compravo per poter ricopiare con matite Faber-Castell quelle donne che incarnavano lo stereotipo della bellezza. Ed ho continuato fino a quando dal disegno ho avvertito lo stimolo della pittura. Oggi come allora mi rendo conto che nulla di quello che ricopiavo poteva in qualche misura considerarsi arte. C'è una variabile non da poco che colloca una persona tra l'essere o non essere artista, almeno per me: la ripetibilità. Quando disegnavo ero molto scrupoloso, i risultati anche lodevoli, ciononostante in corso d'opera temevo sempre di commettere qualche errore e la sola idea di dover rifare tutto era terribile perché non ne sarei stato capace, o meglio, avrei potuto disegnare qualcosa di nuovo e forse migliore ma mai la stessa cosa. Nelle letture dei maestri della pittura dal Medioevo ai tempi nostri  era ricorrente l'uso dei disegni preparatori o studi, cosa che io non facevo. Ritengo che un artista che voglia esprimere un concetto con il proprio mezzo sia capace di ripeterlo perché ce l'ha dentro. Recentemente ho visitato una mostra dove l'artista a disegnato su piastrelle di legno di varie dimensioni volti di donne, spesso lo stesso volto, con lo stesso taglio ed espressione ripetuto su formelle diverse. Mi è sorto il dubbio che fossero stampate per quanto incredibilmente simili. Sempre recentemente ho trovato in edicola una rivista sull'arte affatto male (daccordo l'ho acquistata perchè in retro copertina c'era una foto di Matteo Basilé il cui lavoro molto apprezzo, ma il contenuto è di ottima informazione). Sul numero acquistato c'è uno speciale sulla fotografia. Sarà che rincorro le mie frustranti progettualità e ambizioni ma temo di non essermi mai soffermato seriamente a riflettere sul mondo della fotografia artistica e concettuale. Dando per scontato che il seme della follia sia ben piantato in questi rappresentanti, trovo che la variabile della ripetività sia fattore imprescindibile. L'istantanea da word press photo o  il risultato accidentale di un errore fotografico non riesco ad attribuirli ad una mente artistica, seppure etichettati come foto di alto contenuto comunicativo. L'artista vero, torno a ripetere per me, ha un bisogno famelico di sapere prima di creare e creando assurge al ruolo di creatore, di essere capace cioè di possedere la propria opera. Mi fanno ridere perciò le espressioni come fotografia d'autore o il sempreverde nudo artistico, tanto amabilmente dichiarato dalle mie subrettine del '95 in epoca calendari quanto dalle nuove gossippare. Ma fatemi il piacere! Giotto disegnò un cerchio per dimostrare la sua abilità artistica: un solo segno, preciso. Lo possedeva.