sabato 29 dicembre 2012

lannosabbatico

Se lo avessi deciso io, non lo avrei mai fatto, non ci sarei riuscito. Perché a stare fermo a prendermi pause non ne sono capace. Ci si è messa la vita allora, con il suo indiscutibile, efficace cinismo.
Il 2012 risulta essere davvero per me un anno sabbatico. Doveva finire il mondo qualche giorno fa: che delusione! la stupidità intendo, i maya invece hanno la mia ammirazione.
Torno a sedermi al monitor dopo tanto. Per scrivere.
Ho fatto ordine agli archivi nei giorni scorsi. Un quantità di file spropositata che sulle prime mi ha spiazzato, finendo poi col disturbarmi come disturba la troppa polvere accumulata. Ecco, in fotografia, ho accumulato polvere. Sarà che per formattare il mac ho dovuto aprire ogni cassetto al suo interno per controllare ed evitare inutili perdite, ma l'inutile ha superato le mie aspettative. Tuttavia ho fatto ordine, mentre sta per scadere quest' anno che mi ha mostrato quanto sia pigro, vulnerabile, emotivo, creatura, corazzato, spaventato, volubile, schivo, stupido, arrabbiato ma anche riconoscente, testardo, fantasioso, capace, paziente, forte. Capisco che così me la canto da solo…

Ok, riportiamo le lancette sullo zero e ripartiamo. Queste lunghe pause lontano da internet sono state utili. All'inizio ero spaventato, devo riconoscerlo. Temevo di perdermi o di perdere cose interessanti, percepire un mondo che avanza senza me che sto fermo non è piacevole come sensazione. Invece internet sta sempre lì, i suoi contenuti anche, semmai qualcosa in più da dire la avrei io ora; che possa piacere o meno, c'è una voglia nuova di comunicare in me, un voler essere diretto e schietto.
Poiché le cose logore e inutili me le voglio lasciare dietro, mi tolgo ora un sassolino dalla scarpa e non ne parlo più.
Nel mio caro paese che vuole vestirsi da città, ma resta sempre un paese, c'è una categoria di lavoratori che fa fatica a distinguere il lavoro da artigiano da quello commerciale, e temo non sappia affatto cosa si intende per libero professionista. Per questi lavoratori, non avere un negozio aperto al pubblico dove, dico per esempio - ma solo per esempio - si vendono compatte digitali o si fanno stampe sui puzzle, ma si fanno - per esempio - fotografie su commissione, equivale a lavorare a nero. Non è ben chiara la distinzione fra negozio e studio. Tanto non lo capiscono che si intestardiscono a sprecare tempo su come ledere il lavoro o l'immagine del libero professionista piuttosto che investire su se stessi e la propria attività commerciale. Provo una profonda tristezza. Sincera. Il mondo del lavoro è cambiato. Ce l'hanno cambiato! e bisogna adattarsi, inventarsi, unirsi, formarsi. E' in atto una selezione naturale e il tempo darà ragione dei sopravvissuti. Io, che possa rientrare fra i (fotografi) sopravvissuti o meno, continuerò a fotografare. Insomma, ho bisogno di scrivere in qualche modo!

Ad arrivederci, sopravvisuti!

domenica 4 novembre 2012

Dove sei stato?


In letargo. Anzi! ho fatto il cambio della muta.
Quasi quattro mesi dall'ultimo post, ed in generale dalla vita da internetauta, mi hanno alleggerito. Non sono migliorato, tanto che al cambio del pelo, si sa, resta il vizio. Durante questa assenza mi sono preso delle distanze arbitrarie; ho trovato uno specchio capace di rimandarmi alcuni aspetti malsani di me e prenderne atto; mi sono assentato per ritrovare la musica nella sua efficacia, il che, per chi lo capisce, è dire carburante. Il senso piacevole di questo risveglio sta tutto nelle diverse vedute, un disegno geometrico bidimensionale che, ruotando, mi mostra ora un terzo asse su cui girare. L'approccio è cambiato e la nuova via sembra interessante. Mi sono riempito di cose da fare, non solo buoni propositi, ma compiti precisi e per il fisico e per lo spirito. A proposito di questo... contemporaneamente alla frequenza di un corso di yoga, le mie letture stanno slittando verso l' oriente, banale lo so, ma adesso riesco a digerirli meglio - e lo yoga sta oliando tutte quante le giunture.
Ho chiuso il progetto roomonezero. Un anno e una fatica che non ha parole. È strano come ci si sente svuotati negli istanti in cui percepisci che stai per finire un qualcosa che per molto tempo ti ha inseguito costantemente,  una idea, una foto, un desiderio di comunicazione. Un'ossessione. L'immagine in fondo è simbolica della stanchezza finale.
La pubblicazione sul sito è monca di tutti i testi che sto completando e spero richiedano meno tempo rispetto alle foto.
Se nei prossimi giorni mi assento nuovamente è perché sto vivendo.


giovedì 12 luglio 2012

digestione

Ho sempre avuto una digestione lenta. Solo da qualche anno, ponendo una senile attenzione all'alimentazione, ho posato lo sguardo, nonché il controllo, al mio corpo, che troppe volte strapazzo. Ma amo il cibo, reputo sacro l'atto del nutrirsi e in quei momenti in cui il semplice desiderio di mangiare qualcosa si trasforma in una voglia da gestante, indosso il personaggio delle mie letture preferite, mi rifugio in qualche posto dove poter ordinare del buon cibo, dico del buon cibo, e mi gusto il momento in cui, con gli occhi chiusi, porto alla bocca le bontà delle nostre e altrui tradizioni. Non manco di accompagnare, se posso, a del vino. Non sono un esperto, mi interessa meno esserlo; mi fido del mio palato e basta. Poi devo fare i conti con la digestione, alternando i "stavolta ho esagerato" alla rievocazione di ogni singolo sapore.
In ambiente fotografico ho una digestione più che mai lenta. Se potessi rigurgiterei ogni pensiero per riappropriarmene una seconda volta, triturarli finemente tra cuore e ragione come tra molari. Invece elaboro, con lentezza.
A Corigliano ho ritrovato volti noti, per un po' il tempo si è piegato su se stesso, riducendo di molto l'anno che ci separa dal nostro ultimo incontro, almeno io ho avvertito questo. A quei volti ne ho aggiunti di nuovi. Ho atteso un solo turno prima di sedermi al tavolo di Denis Curti. Nella cartella che avevo portato c'erano alcune immagini prodotte più di dieci mesi prima e mai mostrate a chicchessia. Dopo di lui altri hanno visto quelle foto, alcuni pareri sono stati deludenti, poco chiari, troppa cura diplomatica nel non ferire. Mi arriva anche un "mi viene la pelle d'oca a ripensare alle tue foto" che è stato qualcosa di inaspettato: che una mia foto faccia reagire la chimica di un corpo è meraviglioso, direi. Ho trascorso una bellissima giornata, molte delle parole dette le sto ancora digerendo e si stanno trasformando in zuccheri, proteine, sali minerali. Ho visto gente sconosciuta portare foto incredibili e fotografi incredibili che non mi hanno procurato brividi. Le stanze del Castello Ducale, le mostre allestite. Le birre con i ragazzi al bar. Il rito delle foto di gruppo. Gli imbocca al lupo e teniamoci in contatto. Il caldo. Tutto di quella giornata ha un sapore.

venerdì 29 giugno 2012

pulse

Aleggia un'atmosfera delicata intorno a me. Da qualche giorno.
Un anno fa piangevo lacrime graffianti, a ricordarmi quanto sangue avevo sotto la cute e che fosse ora che mi accorgessi di quel pulsare estremamente fragile e vitale. Domani torno in quel luogo, a salutare volti noti e ad incontrarne nuovi. A proposito dei nuovi, spero di avere il confronto con chi ho richiesto legga il mio portfolio. Ogni volta mi maledico per non aver prodotto abbastanza, salvo poi scoprire che fatico di più a selezionare e scartare. Porto con me domani delle immagini ancora inedite, mai mostrate a nessuno. Sono nate immediatamente dopo il postbenedusi, d'impeto, come sotto effetto sbornia, fuori controllo. Ho scattato fin quando non sono tornato lucido, fino a quando non sono tornato a vigilare su me stesso. Da sveglio ho provato vergogna per quelle immagini. Le temevo per i possibili strati di realtà che potevano generare, le incomprensioni o le altrettante interpretazioni. Una foto cos'è? Il pensiero razionale vuole che esista una sola realtà, matematica, quello umanistico invece lascia all'osservatore la libertà di costruirsene una propria sull'alfabeto culturale che possiede. A chi appartiene allora la foto? Al suo autore protagonista che si rivela vero (forse), nudo, unico proprietario di quell'identità, o al suo fruitore spettatore che, prendendone coscienza, come dichiara Francesca, non riesce più a viverne senza? Non so decidere.
La fase è delicata anche per un altro motivo. Ho messo a fuoco un progetto. Temo, nell'euforia del momento, di precipitare per troppa fretta, per esaltazione. L'ho commissionato a me stesso, non mi importa di mostrarlo e se accadrà sarà per conseguenza collaterale. Sento il bisogno di essere lasciato in pace, evitare di dover dar conto, fare in modo che il fiore si schiuda lontano dalle gelate. Ho la tremenda sensazione che se voglio fare fotografia devo smettere di fare il fotografo.

mercoledì 27 giugno 2012

sto leggendo Murakami ma è una coincidenza

C'è una playlist dei luoghi che desidero visitare e non sentirò di aver vissuto appieno se prima non ci sarò stato. In pole costante l'Australia, a seguire il Giappone. Quest'ultimo ogni volta che entra nel mio raggio di ascolto mi procura un fremito lungo tutto il corpo. Ho letto manga per parecchi anni, almeno un paio di serie della mia collezione li reputo dei capolavori, forse proprio durante queste letture mi sono imbattuto nella definizione di "Tokio: il caos organizzato". I motivi di questo mio desiderio di andare dall'altra parte del pianeta possono apparire superficiali rispetto ad un sano interesse culturale e storico, ma ad oggi le tracce di quella curiosità prima infantile, poi adolescenziale, sono ancora la componente principale che mi spinge a sognarli.  Il Giappone che cambiava è il titolo di una mostra che ha da subito innescato la mia attenzione. Esposta alla Galleria 70, nei pressi di porta nuova a Milano, oltre a godere di immagini evocative ho potuto ascoltare e sorprendermi del pensiero del suo gallerista.  Era mezzogiorno quando sono entrato, alle due avevo un treno per Torino ma l'ho perso perché nell'ipnosi uditiva ho dimenticato qualsiasi controllo sul tempo. Difronte a gente che snocciola con fare calmo e ovvio l'universo dell'arte io resto incantato. In due ore e mezzo ho faticato ad inserirmi nel flusso dei discorsi del padrone di casa, poche frasi ermetiche, per dare l'idea che ero vivo, e spero di non aver detto scemenze. Il dato sorprendente è che questo incontro arriva in un periodo in cui sento "arte" ovunque mi giro. Ho delineato un percorso progettuale, ne sono preso, tanto che interferisce nelle faccende lavorative e sulla concentrazione. Poiché sto indagando sui vari aspetti intrinseci di questo progetto è stata una rivelazione scoprire dal mio interlocutore, appassionato di cultura africana, una variante che non avevo minimamente considerato. Da un certo punto in poi è stata una violenza perché avevo desiderio di continuare ad ascoltare tutto quel sapere e contemporaneamente viaggiavo sui miei binari fotografici. Ho salutato e ringraziato ripetutamente prima di uscire, ironicamente ho anche avvisato che al prossimo incontro l'avrei registrato per esigenze di memoria, infatti appena ho messo il naso fuori ho annotato su Ipad quanto più possibile di quello che avevo sentito. Non ho avuto tempo per riordinare le note di quel giorno, ancora una volta un incontro inaspettato mi ha aggrovigliato le sinapsi.  "Il Giappone che cambiava" di Mario De Biasi, alla Galleria 70 - corso di Porta Nuova 36/38 Milano, curatore Eugenio Bitetti

venerdì 22 giugno 2012

reed mountain

I primi sei mesi di questo anno sono passati come se avessi attraversato un sentiero roccioso con pendenza oltre il cinquanta per cento. Il parallelismo non è solo superficiale. Spesso mi è capitato di vivere delle vacanze estive facendo escursioni in montagna. Una delle prerogative  in questi caso è munirsi di scarpe comode e  pronte a resistere a dure prove, poi bisogna avere la giusta divisa, l'abbigliamento indicato che permetta di stare comodo sia sotto il sole cocente che  al fresco delle zone fitte di vegetazione. Delle escursioni non bisogna trascurare la fatica delle salite meno che mai la trappola delle discese, in queste, all'inizio, si tende a lasciarsi andare al vantaggio della pendenza favorevole per scoprire dopo qualche decina di tornanti che si è caricato troppo sulle ginocchia e se non si è fatto qualche danno a tendini e muscoli si è fortunati. Ma la prima esperienza che ho fatto mi ha insegnato il dato più importante dell'escursionismo: lasciare ciò che non serve. Il mio primo zaino era pieno dellla sopravvivenza per una settimana, o lo stereotipo della valigia di una donna pronta alla vacanza. Camminare per ore con l'abbondanza di elementi che presi singolarmente avevano una loro logica di utilità,  in aggiunta a macchina fotografica, treppiedi e un paio di ottiche (dove non brillo di acume recupero in stoltezza), non fu una brillante idea. La mia spalla mi maledì. Il secondo giorno ho alleggerito, ma senza convinzione e ho impiegato una settimana per ottenere la giusta misura di zavorra.  Questi sei mesi mi ricordano quelle prime uscite. A parte tutta la pulizia di pensieri e dinamiche nel contesto fotografico ho preso ad alleggerirmi anche di alcuni reed presenti nel mio elenco, quelli che sostanzialmente non mi servono. C' è stato un periodo, fino a poco più di un anno fa, dove vivevo google reader come il cartellino da timbrare prima di iniziare la giornata. Passavo parecchio tempo su blog interessanti ma di molti non ne avevo bisogno, come se avessi messo in zaino il fornellino da campo in una escursione che mi avrebbe riportato a casa dopo sole due ore. Quando dico che non ne avevo bisogno non è per superbia. Semplicemente mi stavano portando da un'altra parte, in alcuni casi mi distraevano del tutto. Essermi preso un lungo periodo di distacco forzato da queste letture mi è servito. Non controllo più quotidianamente i reed, mi ritaglio lo spazio appropriato, come dire: stasera vado al cinema, vado a salutare un amica, oggi mi leggo i reed. La rosa di quelli che continuano ad essermi affezionati conta poche unità adesso, il resto sta lì e basta, forse solo a ricordarmi che sarebbe meglio o sostituirli o metterli via del tutto.  Comunque oggi è una bella giornata, ufficialmente siamo in estate, e ho messo nella sacca ciò che mi serve per oggi. Esco a fare due passi sul reed mountain.

martedì 19 giugno 2012

tempografia

Un mio cliente mi chiama qualche giorno fa chiedendomi di incontrarlo. Lo raggiungo prima  possibile perché con una sana educazione e un attento rispetto dei ruoli si è accattivato la mia stima. Nei suoi uffici mi mette a conoscenza di una vicenda che gli provoca un disagio di cui liberarsi, per quanto possibile. Una persona a lui cara, che vive al di là dell'Atlantico, ha visto cancellarsi completamente la sua abitazione. Tutto è andato distrutto e con esso la perdita del suo contenuto. Nell'elenco delle perdite anche le foto ricordo,  le tracce che testimoniano la presenza di una vita e che diventano ancore e per la memoria e per il cuore. Il mio cliente mi ha chiesto di andare a recuperare, rifotografandole, le uniche immagini dei familiari di questa persona che sono in una casa e su una lapide in un cimitero di un paese del centro Italia, per poi spedirle. Pochi frammenti rispetto all'archivio originario. Fotografie, finché le stampavamo ci disperavamo per i costi e l'ingombro delle scatole dove tenerle. Poi il pixel ci ha liberato dell'uno e dell'altro. Dell'avvento del digitale non recrimino nulla, la sola cosa che faccio molta fatica ad accettare sono proprio le cornici digitale. Una foto (stampata) che sbianca dietro un vetro  mi da la percezione del tempo che passa, è una roccia che si trasforma all'erosione; se tutto rimane inalterato per magia dell'elettronica la faccenda si fa triste, come il desiderio di immortalità mentre il resto del mondo invecchia, o in scala ridotta come chi spera di congelarsi dietro la chirurgia plastica. La fotografia è tempo. E deve scorrere, seppure ad una velocità misurata diversamente. Le foto ricordo hanno un fascino incredibile su di me. Se mi capita di entrare in casa di qualcuno per la prima volta il mio sguardo è orientato alla mensola dei libri e alle foto ricordo. Mi piace supporre di poter capire chi sono i proprietari da cosa leggono e come tutelano la memoria. Che coincida con la realtà è irrilevante, è un gioco a immaginare. Così oggi mi ritrovo fra le mani volti, date, atmosfere, dediche, tutte racchiuse nei quattro lati di una foto. In un paese del centro Italia stamattina il tempo ha preso a scorrere diversamente per me. Mentre si muove crea scene, struttura dialoghi, colora. Una sorta di camera oscura dove si sviluppano storie ed invece di scrivere con la luce si scrive col tempo.

venerdì 15 giugno 2012

artisti veri (reloaded)

Prima della fotografia, prima del teatro e dei tentativi nella musica e come scrittore mi sono cimentato con il disegno. Era il '95. Esisteva in quel periodo una rivista, Boss, che presumo sia scomparsa dalle edicole. L'interno conteneva per buona parte foto delle più o meno vestite soubrette della televisione di quel periodo. Ma capitava anche di trovare dei buoni servizi di fotografi interessanti, lì ad esempio ho scoperto Bitesnich. Boss lo compravo per poter ricopiare con matite Faber-Castell quelle donne che incarnavano lo stereotipo della bellezza. Ed ho continuato fino a quando dal disegno ho avvertito lo stimolo della pittura. Oggi come allora mi rendo conto che nulla di quello che ricopiavo poteva in qualche misura considerarsi arte. C'è una variabile non da poco che colloca una persona tra l'essere o non essere artista, almeno per me: la ripetibilità. Quando disegnavo ero molto scrupoloso, i risultati anche lodevoli, ciononostante in corso d'opera temevo sempre di commettere qualche errore e la sola idea di dover rifare tutto era terribile perché non ne sarei stato capace, o meglio, avrei potuto disegnare qualcosa di nuovo e forse migliore ma mai la stessa cosa. Nelle letture dei maestri della pittura dal Medioevo ai tempi nostri  era ricorrente l'uso dei disegni preparatori o studi, cosa che io non facevo. Ritengo che un artista che voglia esprimere un concetto con il proprio mezzo sia capace di ripeterlo perché ce l'ha dentro. Recentemente ho visitato una mostra dove l'artista a disegnato su piastrelle di legno di varie dimensioni volti di donne, spesso lo stesso volto, con lo stesso taglio ed espressione ripetuto su formelle diverse. Mi è sorto il dubbio che fossero stampate per quanto incredibilmente simili. Sempre recentemente ho trovato in edicola una rivista sull'arte affatto male (daccordo l'ho acquistata perchè in retro copertina c'era una foto di Matteo Basilé il cui lavoro molto apprezzo, ma il contenuto è di ottima informazione). Sul numero acquistato c'è uno speciale sulla fotografia. Sarà che rincorro le mie frustranti progettualità e ambizioni ma temo di non essermi mai soffermato seriamente a riflettere sul mondo della fotografia artistica e concettuale. Dando per scontato che il seme della follia sia ben piantato in questi rappresentanti, trovo che la variabile della ripetività sia fattore imprescindibile. L'istantanea da word press photo o  il risultato accidentale di un errore fotografico non riesco ad attribuirli ad una mente artistica, seppure etichettati come foto di alto contenuto comunicativo. L'artista vero, torno a ripetere per me, ha un bisogno famelico di sapere prima di creare e creando assurge al ruolo di creatore, di essere capace cioè di possedere la propria opera. Mi fanno ridere perciò le espressioni come fotografia d'autore o il sempreverde nudo artistico, tanto amabilmente dichiarato dalle mie subrettine del '95 in epoca calendari quanto dalle nuove gossippare. Ma fatemi il piacere! Giotto disegnò un cerchio per dimostrare la sua abilità artistica: un solo segno, preciso. Lo possedeva.

giovedì 24 maggio 2012

amleto, ossia fanculo su chi sono o chi non sono

Facciamo che faccio una domanda:

Sapete chi siete?

Pensateci. A me han preso a girarmi le palle a forza di sentirmelo ripetere sia dall'esterno che dalla mia vocina interna del cazzo.
Io non lo so chi sono! Non ce l'ho la bussola.Viaggio alla cazzo di cane se lo volete sapere. Ho messo su una imbarcazione, l'ho incatramata bene per evitare falle e tiene perdio!
Non chiedetemi più chi sono e perché le mie foto non parlano di me. Li sto esplorando i come e i perché e fanno malissimo.
Ho trovato risposta ad una sola domanda finora:
Perché faccio foto?
Perché sono un voyeur, e dall'altra parte del buco vedo il mondo.

mercoledì 9 maggio 2012

gli artisti, veri

Ritengo che ci siano due differenti modi per essere artisti: il primo indaga, elabora, esprime la logica coerenza del proprio dire; l'altro è quello che madre natura gli ha dato un dono e produce meraviglie con la stessa noncuranza con cui ci si gratta un prurito. Tutto il resto è gente che ci prova.
Una delle disgrazie che può capitare a chi della fotografia dichiara di volerne fare qualcosa in più è diventare monotematico. I fotografi parlano solo di fotografia, così i musicisti parlano solo di musica, gli attori solo di recitazione, gli scrittori… e via dicendo. Ma l'artista fotografo, o l'artista scultore, o l'Artista,  è una persona interessante. Se lo incontri e appartiene alla categoria spettinatotrasandatosporco non gli daresti un centesimo di elemosina, poi inizia a parlare e vuoi sapere tutto quello che sa lui.
Sono circondato da troppi monotematici, quelli in erba spuntano ogni giorno e pretendono rapidi successi. Per fortuna mi capita di trovare o ritrovare quelle persone che ti fanno mentire sugli appuntamenti di lavoro e rimani lì ad ascoltarli, perché oggi ti sta parlando un artista.
Della chiacchierata che mi sono fatto oggi magari in futuro avrò degli sviluppi di cui parlare.
Invece vi racconto in breve di Vito Maiullari.
L'ho conosciuto personalmente lo scorso hanno. Un mese fa lo ritrovo a fine giornata su un set di lavoro. Mi chiede di fare delle foto per una sua mostra non prima di tenermi un ora a raccontarmi progetti, ricerche e pensieri. Lo ascolto evitando di rompere il suo flusso tanto da farmi dolere la spalla con gli zaini ancora da sistemare in macchina. Vito è uno scultore, principalmente. Quello che sa sulla pietra, specie quella della Murgia, è notevole. Fino al 23 maggio esporrà una parte delle sue opere a Roma. Per chi fosse in zona e ha la possibilità di incontrarlo, fatevi raccontare della pietra.

La forma del Tempo di Vito Maiullari
Ecos Gallery
via Giulia 81/a Roma
tel. 06 68803886

"La pecora fotovoltaica", una provocazione  di Vito Maiullari

pecore che fuggono alla vista del fotografo

Vito Maiullari all'interno di una sua opera

Vito Maiullari mentre "suona" la pietra

martedì 1 maggio 2012

computer, definisci Fotografia

Dieci giorni fa un gruppo di otto persone ha preferito ascoltarmi per una giornata piuttosto che trascorrere una domenica all'aperto, data la piacevole temperatura estiva. In mezzo da allora c'è stato del lavoro da fare e quindi ne parlo solo adesso.
Mi fu chiesto tempo addietro di tenere delle lezioni di fotografia. Concordammo, prima di tutto, che non si sarebbe mai chiamato "workshop", e che non si aspettassero da me un lezionario tecnico per poter fare foto perfette.
Con l'arrivo della primavera son tornati i fiori e i corsi base di fotografia. Ma onestamente ha ancora senso parlare di corso base al 2012? Costruiscono macchine che non ti devi preoccupare di nulla se non di avere un indice funzionante, e se non bastasse, sul web tutto ciò che di base occorre per dare un senso a quelle icone stampate sulle suddette macchine prodigio. Io no, non sono il corso base. Arrivo molto prima, quando ancora non c'è nulla e ti guardo negli occhi, ti fisso, in silenzio; aspetto un cedimento, una distrazione o anche una chiara volontà per domandare ma perché vuoi fotografare? Per me, che scrivo, è una faccenda maledettamente seria la fotografia. Con me si viaggia lentissimo e su strade rovinate. Qualche giorno prima feci recapitare al gruppo il domandario. Domande di cui io non chiedevo alcuna risposta bensì che si interrogassero su apparenti banalità. Continuo a dire che non sono un insegnante, i fotografi non possono insegnare fotografia. Posso parlare di me e della mia fotografia, da cosa è alimentata e spesso è anche un casino per come la sua essenza sia incatramata di elementi che non mi appartengono. Quello che vale per me non può funzionare per un altro, o magari si ma intanto si sta perdendo qualcosa di straordinario e cioè la sua visione di dire in immagini come vede e sente il mondo. Ad è quello che chiedo: di trovare il coraggio di dichiarare le proprie ossessioni e desideri trasformati in fotografia. Il mondo non ha bisogno di nuovi fotografi e cloni di fotografie, ha bisogno di essere sorpreso da prospettive non ancora battute. Se chiedessi al mondo di fotografare la stessa scena ci sarebbero potenzialmente quasi sette miliardi di immagini diverse, una l'impronta di ogni identità.


Il Domandario

1) Come spiegheresti a ET cos’ è una fotografia?
2) Cos’ è la “bellezza”?
3) Qual’ è la parola più bella che conosci?
4) Se ti fosse concesso un solo desiderio da esprimere, cosa chiederesti?
5) Se non fossi tu, chi vorresti essere?
6) Qual’ è il tuo pensiero ricorrente?
7) A un bambino che ti chiede a cosa serve una fotocamera cosa rispondi?
8) Quanti modi conosci per dire che apprezzi una cosa?
9) Qual’ è il luogo o la condizione che ti fa stare più bene?
10) Perché fai un corso di fotografia?

mercoledì 28 marzo 2012

svenire

Fai un viaggio, stai fuori per un po'. Intanto che sei lì ti chiedi come staranno procedendo le cose in continente. Sei davvero lontano, non c'è campo.

Mi ricordo la prima volta che sono svenuto; me le ricordo tutte! Ero in fila per pagare il ticket del sangue che mi avevano prelevato. 19 anni. Sono in piedi nella fila indiana che aspetto il mio turno e intorno ci sono voci, colori, ritmi, forme. E comincio a pensare, a pensare. Più penso più il cerchio dei pensieri si stringe, quello che c'è intorno esce di volta in volta dal cerchio fino a concludersi con il pensiero punto: oggi non torno in officina. Thumm.
Della botta che la mia testa prese cadendo ricordo il suono, non il dolore. Poi ci fu il ritorno, e il cerchio si riallarga. Quando realizzai cosa era accaduto, con ancora gente intorno che si prodigava a regalarmi caramelle zuccherate, osservai che questo è svenire? è bellissimo!
Svenire è mettere a fuoco l'essenziale. Il superfluo lentamente viene messo da parte, senza obbligo di rimorso, con garbo. L'attimo dell'ultimo pensiero cosciente che precede quel thumm già immerso nel nero (sebbene io non sia daccordo ad identificare di nero lo stato di perdita di coscienza, lo utilizzo qui quale ormai immaginario collettivo) per me è analogo all'istante che precede il clic di qualsiasi otturatore. Fuori da ogni crudeltà, penso che la gente dovrebbe svenire più spesso. I fotografi più che mai.
Quelli di una presunta categoria davanti ad una scena, un soggetto, una persona, che bramano di fotografare, cominciano a pensare e a pensare a tutte le stronzate sulle impostazioni, e la post, la carico su fb, e madonna che tette questa, chissà i commenti, questa fa portfolio, a Henri Cartier Bresson e altri dieci maestri della fotografia piace la foto che hai fatto (tanto per loro la Fotografia si riduce al solo Bresson), faccio una mostra a fine mese dal titolo minchia quanto sono bravo, e intanto premono, clic, e gli arriva una botta dietro la nuca che sì gli fa perdere i sensi, ma non è svenire. Svenire è bellissimo, l'ho detto. E' un pensiero solo che avvolge. Sei tu stesso il pensiero. Quando riemergi senti una calma e un senso di amore, di nuovo.
Riassaggi il mondo con lentezza (quanto hai ragione!), grato.
Così, mentre pensavo di essere stato fuori per un po', lontano da tutto, a chiedermi come procedessero le cose, lentamente il cerchio dei pensieri si stringeva. Domenica scorsa il pensiero punto.
Ho sorriso, prima di svenire.

mercoledì 14 marzo 2012

118

QUALCOSA D’ESTATE


Ad un tratto mi ricordai delle caramelle.

Mio padre le aveva prese dalla credenza - quella con i vetri colorati - la mattina, prima di uscire. Quell’azione così naturale, quella ricerca di qualcosa di semplice, come semplice è una caramella, mi colse di sorpresa. Era mio padre, in quel momento, ma perché pensare alle caramelle? Aveva ben altro per la testa. Poi una logica quasi meschina mi diede risposta e non fu affatto difficile lasciarlo andare via senza continuare in quella mia analisi: era mio padre, nel bene e nel male, nel tempo e per sempre.

Era accaduto qualche ora prima.

Non ero felice. Non ero triste. Neppure mi sentivo compreso in quella lista di stati d’animo che comprendono la malinconia, il rimpianto, la noia, la serenità o l’allegria. Svegliandomi, realizzai di essere infastidito da un pensiero scomodo e petulante. Era primo agosto: le vacanze non sarebbero durate molto ancora.

La voglia di alzarmi era scarsissima eppure l’odore del caffè proveniente dalla cucina mi fece capire che la colazione era pronta. Afferrai i pantaloni dalla sedia e l’infilai. La caffettiera era sul tavolo, come pure il pentolino del latte e il resto, ma la cucina era già bella e ordinata. Lei, mia madre, stava asciugando l’ultimo angolo del lavandino ed aveva una marcia in più rispetto al suo solito. Sedetti e versai nella tazza quella che sarebbe stata la colazione.

“Ha chiamato lo zio prima”, disse mamma laconica. Non si girò a guardarmi. Chiesi cosa volesse zio.

“Marina ci ha lasciato”, rispose. Fu fredda nel dirmelo. E paradossalmente quella freddezza mi scottò. I vapori del latte salirono al mio naso e mi riscaldarono il viso. Restai immobile, ad osservare il formarsi lento del velo di panna nella scodella. In quell’oblò pallido i miei ricordi di ragazzo disegnarono la faccia pulita di Marina. Ci ha lasciato, un modo meno diretto per dire è morta. È morta.

Pensai se per caso la circostanza richiedesse qualche frase da dire a mia madre, per associarmi ad un dolore che ancora non avevo imparato a conoscere. Poi capii che volevo starmene zitto. Volevo delle risposte senza domandare nulla. Sapere cosa sarebbe accaduto adesso. Sapere se la nonna era già stata avvisata. Sapere quale percentuale avrebbe avuto ora Marina nella mia vita. Ed ancora come comportarmi nelle restanti vacanze. Dovevo piangere se a un certo punto sentivo il desiderio incontrollabile di farlo?

Dopo quella notizia tutto si svolse come sempre in casa. Mi lavai la faccia ed i denti, indossai i vestiti comodi di tutti i giorni, accesi il computer, facendo zapping tra un gioco e l’altro e lasciando che il tempo scivolasse per inerzia. Erano davvero le stesse cose di sempre? Non mi ero lavato: dell’acqua mi era finita sulla faccia e non è la stessa cosa. Il computer non rappresentava quella mattina un’autentica distrazione. Mancava qualcosa. Una direzione? Mancava una lucida ripartizione dei pensieri, mancava la voglia, il registro di un ritmo, mancava una Marina, adesso.

…..

Ma se invece di mancare era qualcosa in più? Il silenzio inusuale di mia madre, ad esempio, la spirale dei ricordi su mia cugina, la maledetta voglia di prendermela con qualcuno. Tutto questo era naturale quanto legittimo. Si ma poi? Cosa c’è dopo uno sfogo di rabbia? Dopo un funerale? Dopo una cloaca di membra insanguinate chiamata ricordi? Dopo. Dopo un giorno? Due? Tre? Rimane tutto quello che è rimasto. Lo sapevo, intuito da ragazzino sveglio suppongo. Il segreto del vivere una vita serena sta tutto nel non rimanere quel pizzico di tempo in più a riflettere su se stessi nei casi della vita. Si perde l’attimo e tutto va avanti comunque. Mi venne questo pensiero quella mattina, di fronte ad un monitor e uno Shanghai che non riuscivo a risolvere.

Mio padre tornò verso mezzogiorno. Venne a cambiarsi la camicia e a lavarsi le mani e la faccia. Lo sentii entrare, ma se avevo avuto l’impulso ad alzarmi per andargli incontro, domandargli qualsiasi cosa, subitamente si spense e ricaddi sulla sedia. Li sentivo parlare. Mio padre raccontava di chi era arrivato a casa degli zii, i percorsi che aveva fatto per risolvere le faccende che sono di queste circostanze. Tutto questo non mi interessava. Finalmente riuscii ad andare in cucina. Loro erano là. Mio padre aveva finito di cambiarsi. Mi diede il buon giorno, come sempre. Non si accorse che l’abitudine va controllata. Sarà, ma risposi. Aveva voglia di parlarmi. Tutte le pieghe intorno ai suoi occhi si mossero e vidi che si tratteneva un male dentro. Desiderai gridargli di andarsene al più presto per non dovere sopportare di vederlo in quello stato. Mi accontentò. Si oscurò in corridoio aprendo la porta, poi rientrò in cucina prese le caramelle forti alla mente si girò e scomparve.

Ad un tratto mi ricordai delle caramelle.

L’aria viziata della stanza non riuscivo a sentirla: ero lì da molte ore. Sin dal primo pomeriggio avevamo abbandonato casa per sistemarci in quella degli zii e di Marina. Le famiglie si erano riunite. Fu la rimpatriata più triste che ricordavo, tanto diversa da quelle di quando ci si riuniva per i cenoni o per le ricorrenze allegre. Continuavo a pensare ai würstel, non quei piccoli ma quelli grandi, marchio indelebile di una Germania grassona, sempre presenti in queste occasioni, e l’insalata verde e riccia di quando in quelle sere c’erano i nonni e gli zii, i cugini e le sorelle e i fratelli, di me piccolissimo ancora, del non ne voglio più mamma per alzarmi da tavola e giocare con i miei cugini.

Un altro ricordo.

Fuori c’erano i lampioni accesi. Le ore in quella stanza avevano strisciato lentamente; non una dopo l’altra ma come se fosse stata un’unica ora dilatata. A quel punto della giornata la faccenda aveva preso una piega soporifera. Le chiacchiere dette a bassa voce da quei parenti che conoscevo e da altri mai visti prima erano lo specchio di una stanchezza controllata con sforzo. Non li ascoltavo, non ne avevo voglia, pure le parole entravano nella mia testa e quelle più grosse rimanevano intrappolate alla rete dei miei meccanismi di memoria come pesci. Tutte, però, erano immangiabili.

Ero stanco di stare seduto. Ero stanco di stare in piedi. La stanchezza ti stanca; voglio dire che ad un certo punto la incassi senza più reagire, ne fai una questione di sopravvivenza dove tu hai già perso da un sacco la tua chance di farcela.

Stavo appoggiato alla porta, adesso. In quell’improbabile sala d’attesa c’era la mia famiglia e due signore grasse e ben avviate ad essere vecchie. Più due tizi, un mio zio lontano e un anonimo. Otto in tutto con me. Una delle due donne aveva di che parlare su un certo Donato il salumiere. Si schiarì la voce e aprì una parentesi nel suo discorso per avvertire che era rimasta senza voce perché prima sono stata in corridoio e devo essermela presa proprio brutta quest’altra cosa ci voleva, bah!

Mio padre ne tirò fuori una. La caramella. Offrì la piccola scorta. Questa è l’ora dell’aperitivo, mi venne da pensare. Quando ne hai cinquanta di anni, come quelli di mio padre, lo sai quando è l’ora dell’aperitivo durante una veglia; hai imparato a dividere il tempo in parti più o meno uguali tra i momenti di tristezza e buonumore. Io non li avevo i suoi cinquanta e quindi non presi quelle sue maledette caramelle che ti fanno star bene la gola e ti rimettono apposto e ti danno il via per riprendere un’altra battuta su Donato il salumiere e ti portano tutto un altro cazzo di mondo e tempo che non è quello che è in quel momento.

Marina stava zitta. Non si muoveva. Aveva gli occhi nascosti dalle palpebre. Aveva due anni meno di me e fra qualche anno avrà un bel seno pure lei, se Dio vorrà, non quelle due piccole punte che adesso fanno anche una certa impressione. Me la stavo guardando per bene dopo essermene andato dalle caramelle. Era bella Marina. Tutte le bambine morte che non hanno avuto un incidente che le ha sfigurate sono belle. Lei sarebbe cresciuta nella mia testa. Le cugine si scopano per prime Avrebbe avuto un bel corpo. Le cugine si scopano per prime. Le areole scure come i suoi capelli. Le cugine si scopano per prime. Forse avrebbe avuto un fidanzato più in là. Le cugine si scopano per prime. Doveva portare poco trucco ma unghia smaltate. Le cugine si scopano per prime.

?!

Volevo darmi un cazzotto per lo schifo che stavo pensando. Associare la misericordia a certe visioni è come mettere il peperoncino su un’ostia consacrata. Ti verrebbe un erezione a pensare alla Madonna e questo è peccato mortale.

Piansero tutti quel giorno. Ognuno nelle necessarie dosi personali.

Io no.

Aspettai di vedere Marina negli ultimi istanti per farlo. Continuava a stare zitta e ferma e mi faceva una rabbia quella sua indifferenza al mio sfogo. La morte è solo dei vivi, pensai. Quelli non lo sanno mica che sono morti. Stanno lì e basta, o non stanno lì e basta. Da quest’altra parte si piange, si saluta, si mangiano caramelle, si parla di salumieri, si rievocano i würstel e tutto quanto il resto. Ai morti non è chiesto di piangere o ricordare. Noi restiamo e sono cazzi nostri adesso. Con tutto quello che ne consegue. Fra poco Marina sarebbe scomparsa e di me ancora non ne voleva sapere. Avrei potuto parlare tramite foto ricordo ma sai che bellezza, roba da barzelletta. Le cugine si scopano per prime. Questa volta lo pensai e lo desiderai assieme perché si può amare anche in modo non concettuale.

La chiusero.

La chiusero.

Un rituale di lacrime, che furono delle più pesanti che ricordassi, mi disubbidirono e tutti le videro. La colpa era di Marina. S’era organizzata il suo momento di gloria per deridermi al pubblico dei parenti. E non aveva mosso un dito. Fu che per dirgli Vaffanculo avrei dovuto gridare proprio forte. Tuttavia non mi avrebbe sentito. Marina. Però non era odio. Era una metafora per dire che Le cugine si scopano per prime ma ormai io sto qua e tu non stai da nessuna parte. Il tu sarei io.

Vaffanculo pensai e intanto volevo abbracciarla, stringerla.

Mi girai e trovai mio padre. Lui non era Marina ma era uguale se abbracciavo lui? Aveva l’alito di caramelle forti alla menta. Forse mi venne da ridere a quella scoperta. Una risata che sarebbe stata isterica a farla venire fuori.

Poi.

Poi rimase tutto quello che c’era da rimanere.

Le caramelle di mio padre poi.


P.s. La morte è solo dei vivi.



_________________________________________________



Ieri ho riportato mio padre in ospedale. Solo da qualche giorno era a casa, dopo due mesi in clinica e un operazione al cuore. Ha preso a sputare sangue, di un rosso brillante, e non la smetteva più. Nelle ore trascorse al pronto soccorso, in attesa del ricovero, è riemerso il racconto sopra, scritto più di un decennio e mezzo fà e relativo ad un episodio realmente accadutomi. Mentre lo guardavo sul lettino, in una stanza illuminata a neon riempita di "urgenze", ho pensato due cose: non ho caramelle alla menta da offrire a questi signori. E non ti ho mai fatto il ritratto, papà.


giovedì 8 marzo 2012

limitless

Quando ho bisogno di spegnere il cervello, di distaccarmi dai toni seri e incravattati della vita, mi faccio di film che non richiedano alcuno sforzo per essere seguiti e possibilmente assemblati con una buona dose di effetti speciali. Quando li trovo ancora in programmazione al cinema poi è il massimo.
Non sono qui per fare un elenco di titoli e generi di pellicole che fanno la mia playlist, ma adesso so cosa non riuscivo ad afferrare nella girandola dei pensieri l'ultima volta che sono tornato da milano.
Limitless è un film che ho visto mesi fa, a casa. Uno sfigato, fallito, un perdente, prende un farmaco che gli apre il cervello, ossia lo fa funzionare al pieno delle sue capacità, e la sua vita fa un'iperbole. Si rende conto che è capace di cose straordinarie. Per suggerire allo spettatore lo stato di doping danno al protagonista una vista "grandangolo spinto". Guarda un po'!
Otto mesi fa, nelle vita reale e in tema di fare la fotografia, Settimio Benedusi ripeteva ad un gruppo annebbiato "se capite il senso, l'approccio a tutto questo, vi si apre un mondo davanti". Il mio ha iniziato a schiudersi allora pian piano. Non posso spiegarlo scrivendo, è necessario, per me, avere un interlocutore reale, che crei con me un dialogo e reagisca con me alle riflessioni. Qui non racconto cosa c'è nel farmaco, ma di quello che mi fa fare. Adesso mi sembra tutto più chiaro. La prima e unica volta che ho fatto un corso in piscina, poco più che adolescente, passavo le ore di lezioni a ingoiare acqua e a sfinirmi con bracciate inefficaci. Poi un giorno entro in acqua e finisco la vasca senza batter ciglio, come se ne fossi sempre stato capace. Mi sento così. Vedo un po' più grandangolo. Gli aspetti tecnici della fotografia che prima mi creavano tensione, si sono rivelati. Nuoto con maggiore fiducia. Mi viene da pensare a fare foto che prima non avrei immaginato o che ritenevo lontane dalla mia portata. Le progetto e ne conosco le difficoltà. Ma il dato più importante è che adesso, soltanto adesso, riesco a prevedere l'immagine che poi otterrò.
Come nel film, che ogni dato immagazzinato nella memoria diventa elemento facile da recuperare e sfruttare, davvero l'unico limite adesso e quello che, effettivamente, non conosco.

domenica 4 marzo 2012

no title

L'orologio del mac segna le 23.23
Non ho messo nessuna playlist. Silenzio.
Da due ore leggo i post che da giorni sono lì. Per un po' avevo scelto di evitarli.
Stasera mi sono preso i più gustosi; è capitato qualcuno insipido, così ho smesso per non rovinarmi il sapore.
I miei di post sono ancora sull'iPad. Li ho scritti in questi ultimi due mesi, molti nei fine settimana verso e di ritorno dalla kaverdash. Perché non lì pubblico? Perché adesso mi sembrano sgasati, sbiaditi. Sono nati in momenti precisi e quei momenti erano pieni di magia. Quel sapore non lo posso richiamare e l'operazione amarcord sa di medicina.
Per ora è così, domani avrò cambiato idea e tirerò fuori i conigli dal cilindro e i fazzoletti diverranno colombe.
Sono vivo, si sappia.

martedì 14 febbraio 2012

in vena di aforismi

Recenti preoccupazioni familiari mi hanno reso incapace di gestire con serenità un periodo che avevo programmato come piacevole e fruttuoso. Il perno della fotografia, che regola sia la serenità mentale come pure un fisico che con dignità procede verso i quaranta, è stato messo a dura prova. Da più di sei settimane sono una palla da flipper, dove ad ogni sponda invece di accumulare score mi ritrovo a pensare a fatti che non mi è possibile vivere adesso. Da un mese e mezzo la costante delle mie giornate è rimandare. Questa forzatura, vissuta male all'inizio, ora comincia a mostrarmi cose inaspettate.
Essendo completamente avvolto in un problema serio come la salute di mio padre, tutto ciò che reputavo primario ha preso una piega quasi ridicola. Fino al punto di stare ventiquattrore senza che l'elemento fotografia entri in circolo. Mentalmente ho scritto parecchi post in questo periodo, alcuni considerandoli interessanti ho dovuto fermarli su iPad come note da rivedere. Così senza deciderlo finisco a scrivere un e-diario pregno di ricordi che emergono da molto lontano, cronache di ore in sale di attesa, coincidenze prese al secondo per luoghi, mezzi e temperature diverse in poche ore. Ancora una volta nei momenti di maggior pressione trovo alcune delle risposte che chiedo. Su di me funziona il metodo dello scarto. Elimino, sbuccio, semplifico, pulisco, liberandomi di superfluo.
Due aspetti che fino anche ad un anno fa mi turbavano, come e cosa, ora riesco a percepirle molto più vicine di quanto non immaginassi. A spiegarlo non ne sarei capace, perciò le lascio dire a chi sapeva farlo senza essere necessariamente in vino veritas.

L'unica cosa che conta nella vita è saper godere realmente del proprio essere, noi cerchiamo facilitazioni ovunque solo perché non sappiamo cosa possediamo, usciamo fuori da noi solo perché non sappiamo cosa c'è dentro, così abbiamo un bel da montare sui trampoli, pure sui trampoli bisogna camminare con le nostra gambe, facciamo di tutto per salire più in alto ma anche sul trono più alto del mondo non siamo seduti che sul nostro culo.

e per Tina, che fa chiosa su quanto dettoci stamattina:

La sete di sapere è un dono ma è stato regalato alle persone non per farle sentire più comode ma per metterle sulla graticola dell'attesa e del dubbio.

Entrambe di Michel de Montaigne

lunedì 30 gennaio 2012

primitivo di Manduria

Dottore: Ricorda da quanto tempo avverte di questi pensieri?
Paziente: Da un po'
D: Con un po' intende giorni? settimane?
P: Alcuni mesi
D: Ne prova o ha mai provato conforto?
P: Tutte le volte, ma solo inizialmente.
...

D: Lei ha troppo idealizzato il suo passato. se ne liberi!
P: Dei pensieri o del passato?
D: Sono la stessa cosa, non trova?
P: Mi sta dicendo di smettere con la fotografia
D: No, perché lo pensa?
P: Perché la fotografia è passato, ogni scatto è l'idealizzazione di un attimo.
...

P: Ognuna delle miliardi di foto prodotte fino ad oggi è un tributo a quella porzione del Tempo che, almeno concettualmente, possiamo possedere: il Passato. Non esiste una foto del Futuro, meno che mai del Presente.
D: Continui
P: Pensare una foto, una da realizzare ancora, è già Passato, perché il pensiero che la prodotta si muove anch'esso sulla linea dl tempo. Quando poi la produco fisicamente, rifacendomi a quell'ideale, sublimo l'idea e, inevitabilmente, il Passato. Se mi libero di quell'ideale, come lei suggerisce, non posso produrre nulla.
D: Lei confonde la proiezione con il riflesso.
P: Come?
D: Se permette, uso un elemento che riguarda il suo campo per un esempio: la luce. Una fonte luminosa emette un fascio di luce che va verso un qualcosa, proiettare, quindi va in avanti; il riflesso, viceversa, arriva da, procede indietro. Con la pratica del pensare una foto ci si proietta in avanti, il tentativo di considerare tale pratica come tempo che scorre è illusoria.
P: La luce del Sole impiega otto minuti per raggiungere la Terra.
D: L'esistenza di un corpo, nel caso che lei propone il corpo Terra, determina il Tempo, In sua assenza quella luce esisterebbe comunque. Allo stesso modo il tempo per realizzare una foto è stabilito solo in virtù della presenza di un corpo sensibile che accetta la luce, fatto ciò ne otteniamo il riflesso, la foto, che procede indietro. Finché non la scatta, quindi l'attimo di Presente che entra nel Passato, la sua foto vive nel Futuro.
P: Perché ritiene che abbia confuso le due cose: proiezione e riflesso.
D: Perché ha attribuito al suo passato il compito che non gli spetta. Lei lo identifica come la sorgente, semmai è una parte della radiazione luminosa, e potrebbe, sì, utilizzarla per illuminare la sua fotografia.
P: E cos'è la fonte allora?
D: Lei.